Questo Gnocchi non ci piace

Premesso che quanto segue non è un attacco o un giudizio alla persona, dobbiamo considerare il fatto che, avendo il giornalista Alessandro Gnocchi resa pubblica la sua apostasia attraverso un libro che lede la verità Cattolica, a causa dei contenuti del testo, abbiamo tutto il dovere di rispondere e di comprendere la triste situazione.

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Don Camillo e Papa Chichì

Il tentativo di Francesco di appropriarsi di Don Camillo con una citazione fasulla è inutile, perché l’attuale Papa non si potrebbe trovare a suo agio in nessun angolo del Mondo piccolo e tanto meno nella povera chiesa di don Camillo, dove il Crocifisso parla davvero e lo fa sempre in punta di dottrina, perché è proprio su quel culmine affilato, e non nei giubilei della misericordia un tanto al chilo, che si trova la vera carità… e guardiamo anche cosa Guareschi pensasse del Vaticano II.

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“La Chiesa si dissolve nel Partito Radicale di Pannella?”. Blondet e Gnocchi.

“FUORI MODA”. La posta di Alessandro Gnocchi – rubrica del martedì

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Questo papa piace ancora troppo

Dal sinodo una fede tipo light per far sentire cattolico anche chi non vuole esserlo: è la preoccupazione di Alessandro Gnocchi autore del libro «Questo Papa piace troppo».

di Goffredo Pistelli

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La premiata ditta Kasper & C.

Il Sinodo e la premiata ditta Kasper & C. Sul tema della comunione ai divorziati risposati non si gioca soltanto la morale familiare, ma si rischia di profanare tre sacramenti in sola volta: il matrimonio, la confessione e l’eucaristia.

Caro Dott. Gnocchi,

il segretario generale del prossimo Sinodo sulla famiglia, cardinale Baldisseri, ha dichiarato quanto segue: “Dobbiamo calare la dottrina autentica nella realtà attuale della famiglia. Noi camminiamo nella storia, la religione cristiana non è ideologia, la famiglia di oggi è diversa, se neghiamo questo restiamo a 2000 anni fa”.

Facciamo finta di prendere sul serio le parole del cardinale. Vediamo qual era davvero la situazione della famiglia due millenni or sono. Leggiamo, per esempio, il Vangelo di Matteo (19,3-9):

“Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: ‘È lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?’. Ed egli rispose: ‘Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi’. Gli obiettarono: ‘Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e mandarla via?’. Rispose loro Gesù: ‘Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così. Perciò io vi dico: Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra commette adulterio’”.

Dunque, la situazione della famiglia di duemila anni fa era esattamente quella che S. E. Baldisseri, S. E. Kasper e – pare – il regnante Pontefice vorrebbero instaurare, e che Nostro Signore condannò una volta per sempre.

Perciò mi domando e le domando, caro Dott. Gnocchi: da quale parte sta veramente il “vecchio”? E da quale il “nuovo”?

Ma le pongo anche un altro, più pressante e angoscioso quesito, sperando che Ella sappia illuminarmi. Ove mai il Sinodo – Dio non voglia! – facesse proprie le eresie proferite da Kasper e da Baldisseri, per di più prescrivendole come vincolanti al popolo cattolico, cosa dovremo fare noi semplici fedeli?

La ringrazio e la saluto.

Lorenzo Terzi

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b342bd2d-b438-359e-a1dc-60405cb02116Caro Terzi,

penso che la prima delle sue due domande sia retorica, poiché mi pare di capire che lei sappia bene dove sta il “nuovo” e dove sta il “vecchio”.

Quanto al secondo quesito, una risposta onesta deve partire da un’altrettanto onesta constatazione: se anche il Sinodo non facesse proprie le teorie a-cattoliche della premiata ditta Kasper & C, il giorno dopo la sua conclusione ci troveremmo comunque dentro una Chiesa che, nella maggior parte dei suoi membri, le condivide e, anzi, le pratica già.

La situazione, dunque, è ben più grave di quanto molti immaginino poiché non ci troviamo alla vigilia della probabile immissione nel Corpo Mistico di Cristo di nuove teorie corrosive, ma della possibile conclamata approvazione da parte del vertice.

E anche qui bisogna essere onestamente realisti: sul fatto che il vertice sia l’azionista di maggioranza della premiata ditta Kasper & C non vi possono essere dubbi. Lo sta dicendo da quel terrificante “Buonasera” con cui si presentò al mondo al momento dell’elezione. E poi lo ha ribadito al primo “Angelus” in cui, dopo il terrificante “Buongiorno”, si affrettò a dire: “In questi giorni ho potuto leggere un libro di un cardinale – il cardinale Kasper, un teologo in gamba, un buon teologo – sulla misericordia. E mi ha fatto tanto bene, quel libro, ma non crediate che faccia pubblicità ai libri dei miei cardinali! Non è così! Ma mi ha fatto tanto bene, tanto bene”. E ora, in apertura di Sinodo, se la prende con “i cattivi pastori” che “caricano sulle spalle della gente pesi insopportabili che loro non muovono neppure con un dito”. E il giorno prima aveva fustigato “i capi del popolo” secondo cui “tutto si riduce al compimento dei precetti creati dalla loro febbre intellettuale e teologica”. E, se ancora ci fosse qualcuno che riesce onestamente a intravedere una briciola di “continuità” in quanto sta avvenendo, eccolo a spiegare che “il mondo è cambiato e la chiesa non può chiudersi nelle presunte interpretazioni del dogma”.

Come vede, caro Terzi, è tutto già detto. Ma il caso che lei prospetta è infinitamente più grave poiché dare il crisma del documento alla devastazione di aspetti tutt’altro che secondari della dottrina è ben altro che intrattenersi in amabili conversari con Scalfari.

Su questo tema della comunione ai divorziati risposati non si gioca soltanto la morale familiare, ma si rischia di profanare tre sacramenti in sola volta: il matrimonio, la confessione e l’eucaristia.

Non si pone abbastanza l’attenzione sul fatto che indurre peccatori impenitenti a comunicarsi significa costringerli a magiare la propria condanna e, più ancora, oltraggiare sacrilegamente Corpo, Sangue, Anima e Divinità di Nostro Signore Gesù Cristo.

Mi rendo conto che, messa in questi termini, la questione diventa enorme. Ma, proprio per questo, diventa chiara. Chiunque chieda di profanare e oltraggiare Gesù Cristo, non solo non merita obbedienza, ma va combattuto.

Lei, caro Terzi, mi dirà allora: “ma chi dovremo seguire nella nostra resistenza?”. Anche qui l’enormità di una simile eventualità deve tenerci sul chi vive, ma non atterrirci. Il Signore non ci lascerà soli e, al momento opportuno susciterà la guida giusta. Lo farà coi suoi tempi, che sono sempre più saggi dei nostri, anche se a noi paiono lunghi e dolorosi. Ma lo farà al momento giusto. Noi dobbiamo soltanto preoccuparci di essere pronti confidando nel fatto che i piani del demonio hanno sempre qualche falla. Ma per essere pronti bisogna evitare di abbeverarsi alle fonti avvelenate della nuova dottrina, della nuova morale, della nuova liturgia che in questi ultimi cinquant’anni hanno dissodato il terreno per la seminagione dei nemici di Cristo. Non si abbatta, caro Terzi, ce la faremo, noi o chi per noi.

Alessandro Gnocchi

Sia lodato Gesù Cristo

Copyright © Riscossa Cristiana (7 ottobre 2014)

La Chiesa dell’arcobaleno

Di fronte all’islam che sgozza, Francesco alza la bandiera del pacifismo. Contro Sant’Agostino.

di Alessandro Gnocchi

Aleggia un’orribile forza attorno allo spettacolo delle teste mozzate esibite in favore di camera dai boia islamici. Un orrore impalpabile che sorge dalla banalità del male esibito sul palcoscenico planetario come simbolo di conquista religiosa e poi scende a serpeggiare sinuosa in platea. E lì, in luogo dell’applauso, si compiace del povero balbettìo di quel che resta dell’occidente cristiano, convinto di placare il proprio terrore mendicando dialogo presso un islam moderato inventato a propria immagine e somiglianza.

zzppgnPia illusione originata in un cattolicesimo che, nutrito di cascami illuministi e postilluministi, ha smesso da tempo di alimentarsi dei simboli propri e dunque non è più in grado di decifrare quelli altrui. Un cattolicesimo postilluminista che, per contrappasso, ha avuto in eredità una ragione così debole da aver abolito le differenze per manifesta impossibilità di comprenderle. Un cattolicesimo disarmato, dimentico di se stesso, che tenta goffamente di cogliere sfumature e gradazioni in un mondo che, nella sua radice religiosa, non ne contempla.

Lo scriveva quasi vent’anni or sono don Gianni Baget Bozzo in un saggio opportunamente titolato “Il futuro del cattolicesimo”. “Il problema della contrapposizione tra cattolicesimo e islam”, diceva Baget Bozzo, “è inteso poco nel mondo cattolico, che ormai non considera più le differenze religiose come significative e dimentica che per l’islam l’essenza della persona è segnata dalla appartenenza alla comunità islamica. E’ la perdita di identità cattolica tra i cattolici che rende a loro non comprensibile la permanenza della identità islamica. (…) quello a cui assistiamo è la distruzione dell’Oriente cristiano nel Mediterraneo. I cristiani fuggono verso terre cristiane. E la coscienza stessa dei cattolici è sensibile alle piaghe che affliggono l’uomo, non a quelle che, nel mondo comunista o islamico, affliggono i credenti in quanto tali. Il nichilismo diviene la volontà di non prendere in considerazione le cause che riguardano beni non economici e materiali. La fame nel mondo mobilita i cattolici, come è giusto, ma non vi è un istinto di solidarietà con i cristiani perseguitati. (…) La decadenza del cattolicesimo nei cattolici spiega il fatto che tra i cattolici l’offesa fatta ai cattolici non susciti un sentimento di identificazione”.

Era il 1997, regnante Giovanni Paolo II, e pare l’impietosa istantanea della chiesa non giudicante di Francesco, inoltrata lungo una china che non può più venire spiegata con le sole esigenze della diplomazia. La rinuncia al solo ipotizzare l’uso della forza come strumento di difesa, l’equiparazione tra vittime che “hanno diritto di essere salvate” e carnefici che “hanno diritto di essere fermati”, la desistente attesa dei pronunciamenti dell’Onu, la riesumazione del concetto di guerra solo per detestarla così come la detesta il mondo hanno ben altra radice. Emanano una sonorità nuova che stona non poco, per esempio, con l’”orrenda carneficina”, l’”inutile strage”, il “suicidio d’Europa” con cui Benedetto XV stigmatizzò la prima guerra mondiale, o con “l’inutilità delle guerre” della “Praeclara congratulationis” di Leone XIII.

La chiesa ha sempre considerato la guerra come un male, ma non ha mai pensato di poterla cancellare dal cuore degli uomini. Nelle rogazioni, che dal V secolo appartengono al sentire cattolico più profondo, le processioni oranti e penitenti chiedevano a Dio la liberazione da pestilenze, carestie e guerre: “A peste, fame et bello, libera nos Domine”. Ma lo facevano nella convinzione che peste, fame et bello sono inevitabili stigmate di un mondo segnato dal peccato originale. Proprio come “fulgure et tempestate” e “flagello terraemotus”, per i quali si invocava “libera nos Domine” con uguale pietà.

Dimentica di quanto era evidente anche all’ultimo dei popolani in coda nelle processioni, la chiesa postvolterriana si è innamorata di un’inesistente possibilità naturale della convivenza pacifica. Ha preferito bandire la consapevolezza che la violenza è nel cuore di ogni uomo, ha respinto la conseguente fatica di disciplinarla e così ora è sul punto di perdere se stessa. “La guerra” scrive in “Iota unum” Romano Amerio “non può essere l’estremo dei mali, tranne per chi adotta la veduta irreligiosa che ravvisa nella vita, e non nel fine trascendente della vita, il bene supremo, ed equipollentemente nel piacere il destino dell’uomo”.

Una platea siffatta può solo sentirsi paralizzata dal terrore davanti allo spettacolo offerto dai macellai islamici. Quel che resta dell’occidente cristiano, la gran parte dei pastori cattolici e del loro gregge, versati alle complicanze di ogni genere di dialogo, sono ormai incapaci di comprendere l’essenziale semplicità di un messaggio simbolico. Per quanto blasfemo sia, il gesto dell’assassino rituale continua ad avere natura religiosa e per questo non viene compreso. Raggiunge le corde di anime ormai non più abituate a vibrare e cade in un silenzio, in una rinuncia, in una indifferenza che nulla hanno di santo: in una trattativa banalmente mondana che i latori del messaggio possono solo disprezzare come atto di resa incondizionata.

Un atto religioso perverso si combatte e si sconfigge solo con un atto religioso retto. Quando San Francesco si trovò al cospetto del sultano, non si diede al dialogo e all’ascolto. Nella “Leggenda maggiore” San Bonaventura narra che il santo invitò il sovrano islamico ad accendere un gran fuoco e poi lo sfidò: “io, con i tuoi sacerdoti, entrerò nel fuoco e così, almeno, potrai conoscere quale fede, a ragion veduta, si deve tenere più certa e più santa”. E, davanti al diniego del re, San Francesco incalzò: “entrerò nel fuoco da solo. Se verrò bruciato, ciò venga imputato ai miei peccati; se invece la potenza divina mi farà uscire sano e salvo, riconoscerete Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio, come il vero Dio e signore, salvatore di tutti”. Nei suoi “Ricordi”, frate Illuminato aggiunge come il santo di Assisi spiegò al sultano che “nessun uomo è a noi così amico o così parente, fosse pure a noi caro come un occhio della testa, che non dovremmo allontanarlo, strapparlo e del tutto sradicarlo, se tentasse di distoglierci dalla fede e dall’amore del nostro Dio. Proprio per questo i cristiani giustamente invadono voi e le terre che avete occupato, perché bestemmiate il nome di Cristo e allontanate dal suo culto quanti più uomini potete. Se invece voi voleste conoscere, confessare e adorare il Creatore e Redentore del mondo, vi amerebbero come se stessi”.

Frate Illuminato si limita a chiosare che “Tutti gli astanti rimasero ammirati per le risposte di lui”. Altre fonti parlano della conversione del re musulmano che, per la prima volta, aveva percepito una pace nuova poiché aveva sentito parlare di una guerra nuova: l’una e l’altra estranee e antitetiche a quelle del mondo.

“Vi lascio la pace, vi do la mia pace” dice Gesù ai suoi discepoli nel Vangelo secondo San Giovanni. “Non come la dà il mondo, io la do a voi”. Tra quella coroncina di parole che salvarono l’anima del sultano, il cattolicesimo contemporaneo ha finito per isolare il semplice termine “pace” evaporando il senso di un discorso così eloquente da essere persino didascalico: dal seguace di Cristo si esige la costante lotta con il mondo, poiché non vi è pace senza guerra. Ma questa è un’evidenza dalla quale il cristiano di oggi preferisce ritrarsi accontentandosi dell’illusoria tregua offerta dal mondo, imitazione scimmiesca di quella lasciata dal Salvatore.

Per questo la sua anima candida sussulta al solo sentire il termine guerra, e ancora più abominevole gli pare il concetto di guerra giusta. Elaborato sistematicamente da Sant’Agostino nel “De Civitate Dei”, poi da San Tommaso nella “Summa”, affinato e applicato fin sulla soglia degli ultimi decenni, tale concetto è stata oscurato dalla mitologia della “Pacem in terris”, che lega saldamente Giovanni XXIII all’attuale pontefice.

Secondo Agostino, una guerra è legittima quando viene dichiarata dall’autorità competente, quando si muove contro chi abbia commesso una colpa da punire e quando l’intenzione sia pura, libera da odio, col fine di ottenere un bene ed evitare un male maggiore. Ma, per quanto giusta, la guerra contiene un rischio che atterrisce chiunque difetti di vita religiosa: la morte, quella propria e quella altrui. Nel “De laude novae militiae” San Bernardo di Chiaravalle dice che “la morte data o ricevuta per Cristo merita una grande gloria, simile al martirio”. E, poco più avanti, spiega che il “cavaliere con serenità uccide, con serenità muore”. Nel “Contra Faustum”, Sant’Agostino scrive: “Che cosa infatti si trova da condannare nella guerra? Forse il fatto che uomini destinati in ogni caso a morire vi muoiono per domare uomini destinati a vivere in pace? Condannare questo è proprio di uomini privi di fortezza, non di uomini religiosi”.

Si può solo vagamente immaginare quanto simili parole e simili immagini siano scostanti per i cuori teneri dei cristiani postilluministi. Lontane nello spirito più che nel tempo, retaggio di un mondo barbaro in cui ancora non si aveva nozione della “dignitatis humanae” che avrebbe aperto una nuova era nella chiesa e nel mondo. Parole e immagini terribili perché riconducono l’uomo a considerare ciò che continua a essere in ogni punto della storia e in ogni angolo dell’universo, una creatura caduca destinata a morire. Ma l’uomo d’oggi, quand’anche sia cristiano, vorrebbe illudersi di essere immortale già in questa vita. Solo per questo, per alimentare la bulimia del proprio ego tremebondo, non vuole le guerre per sé e lo interessano poco o nulla quelle altrui. Perciò trova sempre più fascinosa la tentazione di un cristianesimo senza Cristo, di una fede senza Cielo, si una morale senza doveri, di una religioni senza ascesi, ormai pronto per seguire l’anticristo che nei dialoghi di Vladimir Solovev lo ammalia sussurrando dolcemente “Il Cristo ha portato la spada, io porterò la pace”.

Sembra che il cattolicesimo del terzo millennio abbia per solo padre Tertulliano, l’unico autore occidentale di epoca patristica a ritenere sempre illecito l’uso delle armi. Non a caso caduto nell’eresia montanista, questo antenato del pacifismo cristiano vieta ai fedeli di impugnare le armi anche quando sia necessario salvare i fratelli dal martirio e persino quando si renda opportuno evitare alle anime più deboli il rischio dell’abiura. Ma, coerente fino all’estremo nell’eresia pacifista, pretende che ogni cristiano, anche il più debole e il più acerbo nella fede, abbia il dovere di sopportare il martirio piuttosto che abiurare.

Persino lui, con quel suo disprezzo per i relapsi che avevano abbandonato la fede in cambio della vita terrena, oggi sarebbe incomprensibile e inaccettabile. Con il suo pacifismo non era riuscito a sterilizzare la realtà della morte e l’impegno di una decisione per il bene o per il male. Mentre il cristiano postilluminista è atterrito dal fatto che qualsiasi azione debba avere un movente, quindi sia morale e sottoposta a un giudizio. Invece che come cause, preferisce considerare i moventi come sottoprodotti di scarto del proprio agire, privi di rilevanza etica. Operazione tentata sul piano intellettuale archiviando Aristotele come reperto di una superata comunità dell’età del ferro. Tentativo apparentemente riuscito che, divenuto moneta corrente nella teologia, nella filosofia, nella predicazione, è naufragato su uno scoglio ineludibile come la morte, emerso dalle acque postmoderne sotto forme ritualizzate come la guerra o la violenza terroristica.

Proprio per il fatto di averlo bandito come incomprensibile relitto del passato, modernità e postmodernità sono indifese di fronte al rito. E, quando sono laiche e mondane, gli oppongono la chiacchiera, quando invece hanno ancora un retaggio religiose, lo sostituiscono con un simulacro.

In un caso e nell’altro, nulla dispone a comprendere e a reagire efficacemente alla violenza che non cessa. Non nei salotti in cui si troverebbe così delizioso avere come ospite un vero tagliagole, non nelle chiese in cui il sacrificio di Cristo è stato oscurato dalla festa della comunità e nulla deve evocare l’idea della battaglia.

Un tempo la chiesa non esitava a castigare violenza perché l’atto di religione più grande, la messa, iniziava nella sacrestia quando il sacerdote indossava come primo indumento l’amitto, simbolo dell’elmo, come difesa contro il demonio: “Impone Domini, capiti meo galeam salutis, ad expugnandos diabolicos incursus”. E poi, prima di salire all’altare che avrebbe letificato la sua giovinezza, il celebrante invocava il Padre perché mandasse il suo Angelo “qui custodiat, foveat, protegat, visitet atque defendat omnes habitantes in hoc habitaculo”, perché custodisse, sostenesse, proteggesse, visitasse e difendesse tutti gli abitanti di quella navicella di combattenti che si apprestava a guidare in battaglia contro il principe di questo mondo.

Ma ora persino il tre volte Sanctus Dominus Deus Sabaoth, da tre volte Santo Signore Dio degli eserciti è divenuto un più pacifico Signore Dio dell’universo: e quasi nessuno, a quella lode, si inginocchia più. Ma una chiesa che non è capace di far inchinare umilmente i propri fedeli davanti a Dio non può pretendere di farli alzare orgogliosamente davanti agli uomini. Si può solo accontentare di percorrere qualche tratto di strada insieme ora a questo ora quello.

Però è una povera chiesa, la stessa che nella Lauda LIII di Jacopone da Todi lamenta i tremendi effetti della pace mondana: “O pace amara, come m’hai sì afflitta/ Mentre fui in pugna, io stetti dritta;/ or lo riposo m’ha presa e sconfitta;/ el blando Dracone m’ha sì venenato”.

Sette secoli più tardi gli fa eco G.K. Chesterton in un saggio su Dickens: “La nostra civiltà moderna mostra molti sintomi di cinismo e decadenza, ma di tutti i segnali della fragilità moderna e della mancanza di principi morali, non ce n’è nessuno così superficiale o pericoloso come questo: che i filosofi di oggi abbiano cominciato a dividere l’amore dalla guerra, e a collocarli in campi opposti. Non c’è sintomo peggiore di quello che vede l’uomo, fosse pure Nietzsche, affermare che dovremmo andare a combattere invece che amare. Non c’è sintomo peggiore di quello che vede l’uomo, fosse pure Tolstoj, affermare che dovremmo amare invece di andare a combattere. Una cosa implica l’altra. Una cosa implicava l’altra nel vecchio romanzo e nella vecchia religione, che erano le due cose permanenti dell’umanità. Non si può amare qualcosa senza voler combattere per essa. Non si può combattere senza qualcosa per cui farlo. Amare qualcosa senza desiderare di combattere per averla non è amore, ma lussuria”.

© FOGLIO QUOTIDIANO (20 settembre 2014)

Questo Papa piace troppo: l’ultima appassionata opera di Mario Palmaro

di Cristina Siccardi (19/03/2014)

Mario Palmaro (Cesano Maderno, 5 giugno 1968 – Monza, 9 marzo 2014), prima di lasciare il mondo all’età di 46 anni non ancora compiuti, ha voluto dare un segno profondo della sua perseverante Fede: il funerale. Mercoledì 12 marzo, nel magnifico Duomo di Monza, si è celebrata una sublime Santa Messa solenne da Requiem, alla quale hanno partecipato circa 1500 persone: un atto sacro e pubblico di grande significato e di immenso valore spirituale.

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Questo Papa non mi piace e dirlo è un preciso dovere

Il giornalista e scrittore Alessandro Gnocchi: «Lo dispone il codice di diritto canonico. Francesco ha “assolto” al telefono il mio amico morto 24 ore dopo l’uscita del libro: “Le critiche fanno bene”».

di Stefano Lorenzetto (23/03/2014)

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Anche per oggi, niente happy end

“Tenendosi per mano al mondo, senza assegnarsi più il compito di insegnare ma solo quello di accompagnare, la Chiesa prosegue senza freni nel processo di liquefazione”.

di Alessandro Gnocchi & Mario Palmaro (12/12/2013)

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Este Papa no nos gusta

Por Alessandro Gnocchi y Mario Palmaro

Cuánto haya costado la imponente exhibición de pobreza de la que el papa Francisco fue protagonista el 4 de octubre en Asís, no es cosa que se sepa. Cierto es que, en tiempos en los que está tan de moda la simplificación, se nos ocurre que la histórica jornada ha tenido muy poco de franciscano. Una partitura bien escrita y bien interpretada, si se quiere, pero privada del quid que hizo que el espíritu de Francisco, el santo, resultara único: la sorpresa que desaira al mundo. Francisco, el papa, que abraza a los enfermos, que se apretuja con la multitud, que bromea, que improvisa discursos, que asciende al Panda, que abandona a los cardenales durante el almuerzo con las autoridades para ir a la mesa de los pobres, era cuanto menos descontado que pudiera esperarse, y ocurrió puntualmente. Naturalmente con gran concurso de prensa católica y para-católica lista a exaltar la humildad del gesto y soltando un suspiro de alivio porque, esta vez, el papa habló del encuentro con Cristo. Y de la prensa laica diciendo que, ahora sí, la Iglesia se pone a tono con los tiempos. Toda buena mercadería para el titulador de medio calibre que quiere cerrar de prisa el diario y mañana se verá.

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