Francesco, papa riformatore… o cancellatore?

Proponiamo in una nostra traduzione l’editoriale pubblicato oggi dal giornalista Andrea Gagliarducci nel suo blog Monday Vatican. Il vaticanista denuncia il fatto che con questo pontificato abbia preso il sopravvento la cancel culture — ovvero la cancellazione della cultura tradizionale — anche nella Chiesa, nonostante i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI fossero riusciti almeno a frenarla.

Francesco è un papa — aggiungiamo noi — che ha fretta di portare a compimento la rivoluzione dello “spirito del Concilio”; desidera ardentemente vedere l’inizio della “Chiesa del futuro” abbozzata durante gli anni conciliari, pur con tutte le sue contraddizioni. Per esempio, vuole che la Chiesa diventi sinodale, ma accentra a sé tutto il potere. Per raggiungere i suoi scopi non esita a “regalare” beni che non appartengono ai papi ma alla Chiesa, per esempio alcune reliquie, ma non rinuncia a niente di ciò che è suo, a cominciare dal suo vestiario. Il “cavallo di battaglia” del suo pontificato è la misericordia, ma è facile per chiunque perdere le sue simpatie ed essere spietatamente abbandonato. Potremmo andare avanti elencando altre contraddizioni di Francesco, per ora ci basti considerare, con amarezza e tristezza, che sta trattando la Chiesa come se fosse cosa sua. Una tentazione che il diavolo manda a tutti i battezzati, ma, ovviamente, quando arriva ad un papa, le conseguenze sono disastrose. La storia stessa della Chiesa lo insegna…

Papa Francesco e la cultura della cancellazione nella Chiesa

di Andrea Gagliarducci (8 maggio 2023)

Quando dieci anni fa fu eletto Papa Francesco, fu subito chiara la decisione di riscrivere parte della storia recente della Chiesa. Lo dicevano lo straordinario risalto dato ai gesti di Papa Francesco, l’attenzione dei media, ma anche alcuni gesti compiuti da Francesco stesso fin dall’inizio.

In questi dieci anni di pontificato, Papa Francesco ha alternato tradizione e innovazione, ma senza dare alle due parole un significato profondo. La sua scelta di dare il cappello cardinalizio a Lorenzo Baldisseri, segretario del Conclave, è in linea con quanto si diceva avesse fatto anche papa Giovanni XXII (1316-1334), in altre circostanze. Tuttavia, le sue decisioni sulla Curia sono discutibili e rimandano a una teologia accantonata da anni.

L’idea di un papato missionario, che metta da parte l’istituzionalità; il desiderio di un centro che sia effettivamente al servizio delle periferie, abbandonando le vecchie strutture di potere; la dialettica sui problemi della Chiesa istituzionale e quindi l’attacco al clericalismo; erano tutte idee che si erano diffuse durante e dopo il Concilio Vaticano II e che erano esplose in modo virulento nei dibattiti.

Paolo VI cercò di tenere la barra dritta. Istituì il Sinodo dei Vescovi e soprattutto promulgò l’Humanae Vitae, un’enciclica che riaffermava l’insegnamento tradizionale della Chiesa e che, di fatto, spazzava via ogni tentativo di andare oltre il Depositum Fidei. Quell’enciclica fu molto contestata, eppure l’adesione ai suoi principi fu molto ampia, quasi totale. Anzi, l’allora cardinale Karol Wojtyla sottolineò che l’enciclica avrebbe dovuto essere collegata al tema dell’infallibilità, sottolineando come il Papa non avesse presentato un’opinione, ma avesse riassunto la corretta dottrina.

Insomma, c’era un dibattito in corso, che i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI avevano cercato di risolvere. Giovanni Paolo II lo aveva fatto cercando un dialogo costante sui temi della fede, e allo stesso tempo creando istituzioni autorevoli. L’approccio di Benedetto XVI è stato quello di sottolineare sempre la centralità di Cristo — e in modo particolarmente simbolico con la pubblicazione dei libri su Gesù di Nazaret.

Si tratta di decisioni simboliche molto rivelatrici. Benedetto XVI ha voluto che al tema della Conferenza di Aparecida, che aveva Bergoglio come relatore generale, fossero aggiunte due parole: “Perché i nostri popoli abbiano la vita”. Con Benedetto XVI è diventato: “Perché i nostri popoli abbiano la vita in Lui”.

Giovanni Paolo II, invece, ha modificato la struttura del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa (CCEE), rendendolo un Consiglio composto dai presidenti delle Conferenze episcopali e non più dai vescovi delegati. In questo modo, ha elevato il dibattito dei vescovi europei dando loro maggiore autorità. L’organismo divenne un organismo di presidenti e i dibattiti europei potevano facilmente diventare dibattiti nazionali, perché venivano riportati dai presidenti alle assemblee.

Una vittoria della Curia? Un libro, Storia di una sconfitta, di Francesca Perugi, sostiene di sì. Infatti, evidenzia come quello che era un “focolare” a San Gallo, sede del CCEE, sia stato invece messo da parte da un nuovo protagonismo della Curia romana, e che quindi tutto quel seme del grande dibattito post-conciliare sia stato spazzato via.

Tra i guerrieri del dialogo e i guerrieri della cultura, Giovanni Paolo II avrebbe scelto i secondi, ponendo fine alla grande esperienza del focolare di San Gallo che si era formata attorno al cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, e per diversi anni presidente di quella Conferenza.

Sono parole che vogliono rompere la narrazione sulla “mafia di San Gallo”, lanciata in particolare da un libro della storica Julia Meloni, che invece nota come il gruppo si sia strutturato per un vero e proprio “colpo di Stato”, puntando prima su Bergoglio come candidato al conclave del 2005, e poi accettando di convergere su Ratzinger per evitare la candidatura del cardinale Ruini. Ruini, infatti, sarebbe stato l’esponente di quella corrente di “guerrieri della cultura” che Giovanni Paolo II aveva avallato al Convegno ecclesiale della Conferenza episcopale italiana del 1985.

Insomma, Giovanni Paolo II avrebbe chiuso ogni esperienza di dibattito e collegialità, imponendo il proprio modello, e mostrando così ancora una volta lo strapotere di una Curia che non voleva che emergessero le periferie.

Ma è davvero così? Papa Francesco sembra dare credito a quest’idea, e le sue decisioni sono andate tutte verso una progressiva decostruzione della Curia e delle strutture di potere. Con Papa Francesco nessun incarico è certo, nessun titolo arriva automaticamente, e tutto deve essere compreso all’interno di uno spirito missionario che è quello che porta avanti la riforma della Curia.

Allo stesso tempo, però, nulla avviene senza l’autorizzazione del Papa, nessuna decisione può essere indipendente e, in un luogo dove gli incarichi e anche le “regole d’ingaggio” possono cambiare rapidamente, l’unico punto di riferimento diventa il Papa, con la sua personalità e le sue decisioni.

Papa Francesco ha incanalato la narrazione antiromana in molti dei suoi discorsi, e fin dall’inizio ha usato l’espressione “la vecchia Curia” per riferirsi a un gruppo di fedeli della Curia rimasti legati alla Chiesa, e in particolare a coloro che si sentivano “sconfitti” dagli ultimi due pontificati.

Anche nei concistori, Papa Francesco non ha mancato di “riparare” simbolicamente ai presunti torti subiti, inserendo spesso i cosiddetti “cardinali riparatori” (come gli ex nunzi Rauber, le cui raccomandazioni per la nomina dell’arcivescovo di Bruxelles non sono state seguite, e Fitzgerald, riassegnato dall’importantissimo incarico di segretario del dicastero per il dialogo interreligioso a inviato diplomatico in Egitto).

Non sappiamo se queste mosse del Papa siano state una concessione per evitare pressioni o per adesione ideologica. Eppure è da notare come ci sia, all’interno della Chiesa stessa, una cultura della cancellazione che sta cercando di riscrivere la storia, mostrando in chiave negativa tutto ciò che andrebbe contro la mentalità corrente o a favore delle istituzioni. Le istituzioni sono quasi considerate il male, mentre un governo personalista è accettato senza problemi. È un paradosso, ma è la realtà di oggi.

Il fatto è che ci troviamo di fronte a una Chiesa che non conosce se stessa, e non capisce nemmeno l’importanza della storia e del suo passato. La Chiesa è sempre stata ossessionata dal passato, dal ritorno alle origini, perché nell’esperienza di Cristo tutto si ricapitola. Oggi, invece, il passato sembra essere un peso, e le decisioni vengono prese senza nemmeno considerare le esperienze precedenti. È un mondo in cui la finzione ha la meglio sui fatti. E in cui viviamo il dramma di uomini di Chiesa più interessati a una certa narrazione che alla storia della Chiesa, alla sua tradizione, alla sua vita.

C’è confusione tra decisioni pratiche e adesioni ideologiche. Certo, si è voluto fare un colpo di mano narrativo, con l’elezione di Papa Francesco. Non a caso Austen Ivereigh ha parlato di un vero e proprio “Team Bergoglio”, che si riuniva a San Gallo (“eravamo una specie di mafia”, ha detto scherzando il cardinale Danneels), ma che non era il “cenacolo” del CCEE. Non sorprende che il pontificato abbia avuto questo impatto mediatico. Eppure, quando si è trattato di studiare l’Humanae Vitae, il professor Gilfredo Marengo, che certamente non è un conservatore, ha ammesso: Paolo VI non ha agito da solo.

C’è una Chiesa che continua a vivere e una tradizione che non è mai stata messa da parte. La domanda è se sopravvivrà o soccomberà alla narrazione.

(Fonte: Monday Vatican)

Traduzione nostra

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