Francesco, un papa non papale ma sinodale?

Sottoponiamo all’attenzione dei nostri leottori due articoli per capire ancora una volta la personalità di papa Francesco e il suo modo di governare la Chiesa. Il primo è del sacerdote tedesco don Joachim Heimerl, in cui viene spiegato che Francesco è un papa che non vuole essere papale, ovvero non pone la sua persona privata al servizio del Primato petrino, ma anzi sta facendo l’esatto contrario: personalizza il Primato a seconda della sua personalità dall’alta impronta gesuita (modernista). Il secondo articolo è del vaticanista Sandro Magister che ben dimostra che, per quanto Papa Francesco voglia veramente che la Chiesa diventi sinodale, per lui la sinodalità è un mero strumento per imporrare tale cambiamento, perché in realtà il governo di Francesco è autocrate e dispotico.

Francesco: Il Papa che non vuole essere papale

di P. Joachim Heimerl (21 giugno 2024)

I Papi di solito non indossano pantaloni neri sotto la tonaca bianca, né indossano scarpe nere. Non vivono nella foresteria vaticana e non utilizzano semplici sedie a rotelle. Non importa quanto decrepito possa essere un papa, mantiene sempre il massimo della dignità. Lo deve meno a se stesso che alla sua alta carica. Dopotutto, essere Papa significa sempre ricoprire un ruolo più grande di sé stessi. Ma significa anche che in parte diventi qualcun altro.

Lo indicano i numerosi titoli dei papi, in particolare quelli che li identificano come “successori del Principe degli Apostoli” o come “rappresentanti di Gesù Cristo”.

In definitiva, solo chi è disposto a rinunciare a questa carica è adatto al papato; per questo motivo, i papi assumono anche un nuovo nome.

Con Francesco, invece, ci siamo abituati a una forma di papato nuova – o non abituale, ed estremamente eccentrica: Francesco non è uno che accetta il suo ruolo come la sua croce, ma fa proprio il suo ufficio in modo autocratico, e fatalmente a sua discrezione. I papi del Rinascimento lo hanno fatto in passato e hanno causato enormi danni alla chiesa, e Francesco sta facendo lo stesso. Più a lungo resta in carica, più ciò diventa tormentoso e imbarazzante e più chiaramente diventano evidenti le rotture tra l’ufficio e la persona.

In fondo Francesco è sempre rimasto solo Jorge Mario Bergoglio e per di più gesuita. Questo lo si può trovare un po’ “autentico” in altre alte cariche, ma è un veleno per l’ufficio pontificio. Un papa deve diventare qualcosa di diverso da quello che era prima, anche solo per essere il rappresentante del completamente diverso. Solo così un papa può essere veramente autentico. Un papa non appartiene mai a se stesso, e ci si potrebbe giustamente aspettare che “Francesco” non sia mai solo “Jorge Mario Bergoglio”.

Del resto, ciò è stato dimostrato in modo molto impressionante dall’umile Joseph Ratzinger, che non desiderava il papato né cercava l’ufficio papale né cercava di adattarsi a questo ufficio. – Certamente, come Benedetto XVI. Come ogni papa, ha dato il suo accento, ma non è mai andato oltre ciò che generalmente ci si aspetta da un papa. Per questo non ha mai assecondato o reso ridicolo se stesso.

Con Francesco, però, le cose stanno diversamente. Egli eccede ogni giorno il soggetto papale e lo fa in modo brutale: solo di recente un mondo scioccato ha appreso che è abitualmente incline alle parolacce: nessun papa ha mai pronunciato “froci” prima di lui, e certamente non pubblicamente.

Così appare giusto che sia considerato risentito e talvolta vendicativo; i suoi scandalosi favoritismi e i suoi rapporti con la critica sono più adatti a un principe rinascimentale che al successore del Principe degli Apostoli.

In breve: a Francesco manca l’umiltà e la raffinatezza di un papa; non ha né la nobile intellettualità di Benedetto XVI. né il carisma mistico di Giovanni Paolo II o la nobiltà aristocratica di Pio XII. – Siamo propensi a dire che egli ha, nella migliore delle ipotesi, il contrario di tutto questo e ci mostra costantemente i capricci stravaganti di un Jorge Mario Bergoglio, il quale, pur sfruttando appieno il potere del suo ufficio, si rifiuta ostinatamente di essere finalmente “papale”. Intanto Francesco non riesce nemmeno a indossare i paramenti obbligatori durante la santa messa, e le liturgie un tempo “papali” sono arrivate al punto più basso.

Considerato questo contesto, non sorprende che Francesco stia accarezzando l’idea di cambiare il papato. Al contrario: un passo del genere è coerente per un Papa che tratta gli insegnamenti e le tradizioni della Chiesa in modo così autocratico come se fossero le cave di Carrara.

A questo proposito, ha fatto riflettere la gente quando recentemente è apparso un “documento di studio” del Vaticano che tratta del ministero papale e del dialogo ecumenico.

Sembra complesso, ma è facile da capire: in definitiva, si tratta di declassare l’ufficio papale così che in qualche modo sia adatto a tutti, anche a coloro che non sono né “chiesa” né hanno uffici validi: come luterani e anglicani.

Naturalmente è chiaro che un “documento di studio” non è un “documento didattico”. Ma questo documento è in realtà un pallone di prova e, grazie all’approvazione papale, un’indicazione attendibile di dove dovrebbe portarci il tratto finale di questo pontificato: i confronto con i dogmi papali del Concilio Vaticano I (1870), il cui “spazio di manovra” Francesco vuole reinterpretare, cioè in gran parte eliminare, con una “rilettura”.

Il problema è che questi dogmi sono formulati in modo cristallino, non lasciano alcun margine di manovra e per di più sono collegati all’anatema, cioè alla maledizione della messa al bando.

Un declassamento del papato non è quindi possibile, almeno non se la Chiesa vuole rimanere cattolica.

Ma in realtà è ancora così, oppure un papa che non vuole essere papa non ha già portato all’erosione definitiva del cattolicesimo?

Purtroppo a questa domanda già oggi si può rispondere con un “sì”: il Pontificato di Bergoglio è stato un’unica guerra contro la Chiesa che ha lasciato una scia di distruzione: dalla ripugnante lotta contro la Messa latina fino alla blasfema “benedizione” delle coppie adultere e omosessuali, non ci è stato risparmiato nulla. Da tempo circola la voce che Francesco ha trasformato la Chiesa cattolica in una Chiesa bergogliana, e in una certa misura questo è certamente vero.

A questo proposito resta solo da vedere se Francesco rischierà ora lo schianto finale. Potrebbe trattarsi di una rottura netta con i dogmi del Papa o – come si vociferava nei giorni scorsi – di un divieto radicale della messa in latino. Del resto anche questo risulterebbe in un anatema grazie a Pio V. Ma Francesco difficilmente si lascerà scoraggiare da questo: proprio il papa che non vuole essere papale si considera il papa di tutti i papi. È chiaro che si tratta di un drammatico errore di valutazione, e sappiamo fin troppo bene che è favorito da tutti coloro che essi stessi ricoprono un incarico per cui non sono adatti.


Sinodalità a parole, perché Francesco fa tutto da solo

di Sandro Magister (18 giugno 2024)

Stringi stringi, il sinodo che in ottobre dovrebbe coronare l’ambiziosa impresa fatta partire da papa Francesco nel 2021 finirà per discutere soltanto… di sinodalità. Un mese intero di solo discorso sul metodo. Perché le “tematiche di grande rilevanza” che pure sono emerse nella precedente sessione sono state tutte avocate alla Santa Sede, in altre parole al papa, che dal canto suo ha già messo in moto una decina di “gruppi di studio” che provvederanno loro a riesaminare da capo le “questioni dottrinali, pastorali ed etiche controverse”, consegnando i primi risultati nel giugno del 2025.

Ma c’è di più. Perché all’atto pratico Francesco fa tutto da solo. Basti notare la coincidenza temporale che nello stesso giorno, lo scorso 18 dicembre, ha visto uscire sia il documento che ha imposto il bavaglio alla prossima sessione sinodale, sia la dichiarazione “Fiducia supplicans” che ha troncato con una solitaria decisione dall’alto l’annosa disputa pro o contro la benedizione delle coppie omosessuali, autorizzandola a dispetto della veemente opposizione di interi episcopati continentali e della critica frontale di tutte le Chiese ortodosse e d’Oriente.

Le “questioni controverse” che il papa ha avocato a sé sono in buona misura le stesse su cui si è avvitato in questi anni il “cammino sinodale” della Chiesa cattolica di Germania: preti sposati, nuova morale sessuale, sacra ordinazione delle donne. Francesco, da Roma, è faticosamente riuscito a trattenere il sinodo tedesco dal prendere decisioni a rischio di scisma. Ma nello stesso tempo ha lasciato che nell’intera Chiesa convivano opinioni opposte, che spesso si traducono anche in atti conseguenti. Salvo di tanto in tanto entrare in campo lui, troncando l’una o l’altra questione con gesti e parole sbrigativi ma mai risolutivi, che incendiano ancor più la disputa invece di placarla.

Nelle scorse settimane sono state tre le questioni su cui il papa è uscito allo scoperto. Senza nulla risolvere, anzi, complicando ancor più il quadro.

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La prima questione è una sorta di coda alla polemica sulla benedizione delle coppie omosessuali. In un’intervista a Norah O’Donnell della rete americana CBS, Francesco ha detto che “la benedizione è per tutti”, ma non delle coppie bensì delle singole persone, perché “quello che ho permesso non è stato di benedire l’unione”.

C’è chi ha letto in queste parole del papa una correzione restrittiva a “Fiducia supplicans”. Ma c’è anche chi vi ha visto un mero artificio retorico. Che in ogni caso non cambia nulla nella pratica corrente di chi già benedice, assieme, due omosessuali che celebrano la loro unione, sicuro che da Roma nessuno lo richiamerà all’ordine ingiungendogli di benedirli separatamente, uno dopo l’altro.

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La seconda questione è l’ammissione degli omosessuali al sacerdozio.

Su questo punto preciso la Santa Sede aveva preso posizione nel 2005, con una istruzione della congregazione per l’educazione cattolica che imponeva di non ammettere nei seminari coloro che “praticano l’omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta cultura gay”.

La sola eccezione consentita riguardava le “tendenze omosessuali che fossero solo l’espressione di un problema transitorio”, che comunque dovevano “essere chiaramente superate almeno tre anni prima dell’ordinazione”.

Di fatto, però, negli anni successivi si è diffusa in molti luoghi la prassi di escludere dagli ordini sacri solo coloro che praticano l’omosessualità o sostengono l’ideologia ”gender”, e di ammettere invece chi pur avendo un “orientamento omosessuale” non lo mette in pratica con persone dello stesso sesso e si impegna ad essere fedele alla castità del sacerdozio, alla pari dei candidati eterosessuali.

È una distinzione, questa tra orientamento e pratica omosessuale, che è stata sostenuta e argomentata anche dal cardinale Giuseppe Versaldi in un suo libro uscito quest’anno, Chiesa e identità di genere, presentato e condiviso “in toto” dal quotidiano della conferenza episcopale italiana Avvenire in un servizio dello scorso 21 aprile.

Nel 2015 Versaldi era stato nominato da papa Francesco prefetto della congregazione per l’educazione cattolica, cioè del dicastero vaticano – oggi confluito in quello per la cultura – che si è sempre occupato di tale questione, e aveva ricoperto tale carica fino al 2022.

Anche la conferenza episcopale italiana ha in lavorazione un documento, una “Ratio” sulla formazione nei seminari, che concorda con le posizioni di Versaldi. E il vicepresidente della CEI Francesco Savino, vescovo di Cassano all’Ionio, ha confermato più d’una volta che al sacerdozio possono accedere “sia omo che etero”, purché “capaci di vivere bene le loro promesse rispetto all’obbedienza, alla povertà e alla castità”.

Ma papa Francesco? A quanto pare la pensa diversamente, stando a ciò che ha detto il 20 maggio ai duecentoventi vescovi italiani riuniti per la loro assemblea annuale:

“C’è un’aria di frociaggine in giro che non fa bene. C’è una cultura odierna dell’omosessualità rispetto alla quale chi ha un orientamento omosessuale è meglio che non sia accolto in seminario, perché è molto difficile che un ragazzo che ha questa tendenza poi non cada”.

Queste parole del papa, dette a porte chiuse ma trapelate da più parti nei giorni successivi, hanno colpito sia per l’intransigenza nell’escludere senza eccezioni gli omosessuali dai seminari, sia ancor più per l’epiteto volgare e sprezzante con cui egli si è riferito alla categoria.

Sull’onda delle polemiche la sala stampa vaticana ha emesso un imbarazzato comunicato con le “scuse” del papa “a coloro che si sono sentiti offesi”. Scuse che però Francesco non deve aver preso troppo sul serio, visto come pochi giorni dopo è di nuovo tornato due volte sull’argomento, contraddicendosi invece che chiarire.

Anzitutto, in uno scambio di lettere tra lui e un giovane aspirante al sacerdozio angustiato per vedersi respinto dal seminario, rese pubbliche il 2 giugno dal quotidiano “Il Messaggero”, Francesco gli ha scritto a penna queste parole in apparente contrasto con quanto da lui detto ai vescovi italiani: “Gesù chiama tutti, tutti. Alcuni pensano alla Chiesa come una dogana, e questo è brutto. La Chiesa deve essere aperta a tutti. Fratello, vai avanti con la tua vocazione”.

Ma poi ancora Francesco è tornato a usare il termine “frociaggine” parlando il 12 giugno a una folta schiera di sacerdoti della diocesi di Roma.

Dopo aver di nuovo ribadito l’esclusione degli omosessuali dai seminari – come dimentico di quanto scritto poco prima a quel giovane – il papa ha così proseguito:

“Una volta un monsignore che lavora in Vaticano mi ha detto: ‘Santità, voglio dire una cosa, sono preoccupato per la cultura gay qui dentro’. Ho detto: “Sì, c’è un’aria di frociaggine, è vero, in Vaticano c’è. Ma senta, monsignore, oggi per la nostra cultura [la frociaggine] è una onorificenza”.

A questo punto nessuno più crede che si tratti di involontarie intemperanze verbali. Non sono pochi, in Vaticano e fuori, quelli che riferiscono il loro imbarazzo nell’aver udito il papa, in colloqui privati avuti con lui, usare abitualmente la sprezzante parola “froci” per designare gli omosessuali, incurante di avere lui stesso protetto e promosso alcuni sacerdoti e vescovi che invece– stando al suo veto – neppure avrebbero dovuto essere ammessi in seminario.

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Terza questione, quella delle donne diacono.

Nella stessa intervista a CBS sopra citata, Francesco ha escluso qualsiasi ordinazione sacramentale delle donne al diaconato. “Se si tratta di diaconi con gli ordini sacri, no”, ha detto. “Le donne hanno sempre avuto, direi, la funzione di diaconesse senza essere diaconi, giusto? Le donne sono di grande servizio come donne, non come ministri, come ministri in questo senso, all’interno degli ordini sacri. Fare spazio alle donne nella Chiesa non significa dare loro un ministero”.

Sull’ordinazione delle donne al sacerdozio, si sa, papa Francesco ha sempre detto che “la porta è chiusa”, allineandosi a ciò che il suo predecessore Giovanni Paolo II aveva già sentenziato “con una formulazione definitiva”.

Ma sull’ordinazione delle donne al diaconato fino ad oggi Francesco si era espresso più volte in termini possibilisti. Nel 2016 aveva istituito una commissione di studio che aveva prodotto conclusioni discordi. E nel 2020 ne aveva istituita un’altra, sempre per ricostruire la questione dal punto di vista storico e verificare se nella Chiesa primitiva ci fossero state realmente delle donne diacono.

Questa seconda commissione non ha ancora ultimato i lavori. Ma intanto, nella sessione del sinodo dell’ottobre 2023, i vescovi hanno approvato una relazione finale in cui si auspicava che “si prosegua la ricerca teologica e pastorale sull’accesso delle donne al diaconato, giovandosi dei risultati delle commissioni appositamente istituite dal Santo Padre e delle ricerche teologiche, storiche ed esegetiche già effettuate”.

In effetti non si contano gli esperti che hanno pubblicato saggi a sostegno dell’ordinazione delle donne al diaconato, se non anche al presbiterato e all’episcopato. Per citarne solo alcuni che l’hanno fatto in tempi recentissimi a Roma e in Italia, si pensi al volume del teologo Andrea Grillo “L’accesso delle donne al ministero ordinato”; oppure alla presa di posizione del decano dei teologi italiani Severino Dianich sull’ultimo numero della semiufficiale “Rivista del Clero”; o ancora all’audace saggio del grande biblista gesuita Francesco Rossi De Gasperis (1926-2024) pubblicato poco dopo la sua morte su “Il Regno” dello scorso aprile, nel quale, sulla base della Lettera agli Ebrei, egli vede partecipare al sacerdozio di Cristo risorto tutti i battezzati, uomini e donne, senza alcun bisogno di un’ulteriore ordinazione se non per dei “ministeri contingenti” quali il diaconato, il presbiterato e l’episcopato, da affidarsi senza previa esclusione di alcuno, anche a donne e sposati.

Inoltre, ad avvalorare la sensazione che Francesco fosse ben disposto riguardo alle donne diacono c’è stato il suo invito a Jo Bailey Wells, vescovo donna anglicana, a partecipare al consiglio dei cardinali del 5 febbraio scorso, proprio per riferire come la Chiesa d’Inghilterra sia arrivata a ordinare le donne.

Nella relazione finale della penultima sessione del sinodo, i padri sinodali avevano anche votato la richiesta di sottoporre la questione delle donne diacono “alla prossima sessione dell’assemblea”, quella in programma nel prossimo ottobre.

Ma papa Francesco ha già provveduto lui a chiudere la discussione. La sua “sinodalità” è anche questo: un solitario e inopinato “no” in un’intervista televisiva.

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