“Ama il dolore, perchè è il mezzo per l’espiazione…” (san Padre Pio)
Cari Amici, siccome non siamo “autoreferenziali”, vi proponiamo le riflessioni del domenicano Padre Riccardo Barile che condividiamo alla lettera…. Qui la prima parte, aggiornatevi più avanti perché posteremo qui anche la seconda parte…. Non trascurate di leggere la bellissima intervista rilasciata qui da mons. Carlo Maria Viganò… L’importante è non leggere la Scrittura “alla lettera” come fanno le sétte e, più in generale, i movimenti protestantici-pentecostali… ma dalla Lettera, dal Verbo, da questa Parola, che si è “consegnata” a LA CHIESA per essere spiegata… non dobbiamo discostarci e non dobbiamo manomettere, o accomodare a seconda dei tempi e delle mode!
Il “castigo” è l’atto di “rimettere in riga”… qualcuno. Se rispondi male all’insegnante, non dovrai sorprenderti se ti mette in “castigo“, soprattutto quando viene infranta quella che si chiamava “educazione civica“….
La radice del nome “castigo” è latina, dal verbo “castigàre”, e contiene la parola “castus”, ossia rendere puro, pulito. Rimproverando con le parole, o con i fatti, infatti, l’intento di chi castiga è quello di ritornare ad una condizione di purezza, come quella precedente all’aver commesso la marachella. Il castigo è largamente utilizzato nelle Sacre Scritture: Dio si “adira” (non che si “arrabbia“…) con l’uomo quando perde la retta via, e vorrebbe che tornasse a ben agire e a non commettere malvagità. Allo stesso modo la mamma ci mette in castigo tutte le volte che combiniamo qualcosa che non avremo dovuto fare….
L’ANALISI TEOLOGICA
Castigo di Dio, ma per salvarci. Dice la Scrittura
(di Padre Riccardo Barile OP)
Il peccato originale pone la prima relazione tra peccato dell’uomo e castigo. Ma la sofferenza è solo il risultato della rottura di un equilibrio oppure c’è anche un positivo intervento di Dio? La Bibbia tiene conto di una realtà variegata, che comporta diversi modi dell’agire divino. L’Antico Testamento interpreta alcune calamità naturali e situazioni dolorose come interventi di Dio che castiga. Anche il NT descrive un’azione castigante di Dio, ma rivelando in modo definitivo che il Suo scopo è sempre – nel rispetto della libertà umana – la nostra salvezza.
Il Covid-19 ha riportato in auge la categoria dei castighi di Dio con molta sicurezza nelle affermazioni e nelle negazioni, ma la questione è complessa, a cominciare dalla Sacra Scrittura, che ci apprestiamo brevemente a percorrere.
Una prima risposta alla domanda se Dio castiga, potrebbe essere la 2Pt 2,4ss., che comincia così: «Dio non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò in abissi tenebrosi, tenendoli prigionieri per il giudizio» (2Pt 2,4); evocato poi Noè e il diluvio e Sodoma e Gomorra, il testo arriva a tutti gli empi riservati «per il castigo nel giorno del giudizio» (2Pt 2,9) e agli empi attuali, ai quali «è riservata l’oscurità delle tenebre» (2Pt 2,17). La grandiosità dell’affresco non consiste tanto nel mettere insieme peccato e castigo di Dio, quanto nel partire dagli angeli: i castighi di Dio cominciano ben prima della creazione dell’uomo!
Il peccato originale pone la prima relazione tra peccato e castigo. Sono note le “maledizioni” di Dio in Gen 3,14-19, sintetizzate dal Catechismo (CCC 399-400): perdita della santità originale e della familiarità con Dio, squilibrio nelle facoltà personali e nel rapporto tra uomo e donna, concupiscenza come fascino verso il male, rottura dell’armonia con la creazione che impone fatica per la sopravvivenza, infine la morte così come la si sperimenta.
Tutto questo è chiaro, ma la domanda sottile e che ci accompagnerà da qui in avanti è la seguente: la sofferenza descritta – la condizione umana – è solo il risultato della rottura di un equilibrio, oppure c’è anche un positivo intervento di Dio sotto forma di castigo? Certamente il fatto che le parole siano messe in bocca a Dio e che per due volte ritorni la parola “maledetto” orienta a non scartare la seconda ipotesi, che beninteso non annulla la prima.
Dunque il peso della vita e la sofferenza della morte, l’infelicità di tante relazioni umane – da quelle familiari a quelle internazionali – sono sotto il segno di un primo peccato ma anche, sia pure in modo diverso, di un castigo divino (dal quale Dio offre la liberazione).
Non bisogna tuttavia aumentare la portata di “maledetto il suolo per causa tua”, che il testo biblico lega al sudore per la sussistenza (Gen 3,17-19), estendendolo alle calamità naturali come tsumani, terremoti, irregolarità delle stagioni con carestie, ecc. Il CCC sul male fisico del mondo non cita il peccato originale, ma spiega che Dio ha creato il mondo «“in stato di via” verso la sua perfezione ultima» e comportante «con la comparsa di certi esseri la scomparsa di altri, (…) con le costruzioni della natura anche le distruzioni» (CCC 310). Quindi, probabilmente le calamità naturali ci sarebbero state anche se Adamo non avesse peccato e non è corretto valutarle immediatamente come castigo di Dio o conseguenza dei peccati.
Per contro, le Scritture dell’Antico Testamento interpretano alcune calamità naturali, malattie, guerre e situazioni dolorose degli sconfitti come interventi di Dio che castiga.
Il diluvio è attribuito a Dio il quale vide che «la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni intimo intento del loro cuore non era altro che male», per cui disse: «cancellerò dalla faccia della terra l’uomo che ho creato» e tutto il resto (Gen 6,5.7). Ciò non toglie che il diluvio si possa spiegare in tanti altri modi, ma la Bibbia lo interpreta così.
Per il peccato di Sodoma e Gomorra, dopo che gli abitanti furono accecati, «il Signore fece piovere dal cielo (…) zolfo e fuoco» (Gen 19,11.24). Ciò non toglie che la pioggia di fuoco si possa spiegare in altri modi, ma la Bibbia la interpreta così: mandata da Dio per i peccati.
Passando a vicende personali, il Signore, dopo l’adulterio di Davide con Betsabea, «colpì il bambino che la moglie di Uria aveva partorito a Davide» e il bambino «il settimo giorno morì» (2Sam 12,15.18). Davide peccò anche con il censimento del popolo e «così il Signore mandò la peste in Israele» (2Sam 24,15), che fu tolta grazie al pentimento di Davide, ma che provocò la morte di settantamila persone (cfr. 2Sam 24,15-17).
Torniamo alle vicende collettive e alla più catastrofica: la caduta dei due regni del sud e del nord, l’invasione e l’esilio. Ebbene, «ciò avvenne perché gli Israeliti avevano peccato contro il Signore» (2Re 17,7) venerando altri dei e non osservando le leggi della alleanza (cfr. 2Re 17,8-19), per cui il Signore «li consegnò in mano a predoni, finché non li scacciò dal suo volto» (2Re 17,20). Anche quando il profeta annuncia la liberazione dall’esilio in termini di consolazione, non omette di precisare che il popolo «ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati» (Is 40,2). Ciò non toglie che la fine dei due regni e l’esilio si possano spiegare in tanti altri modi – ad esempio con il logoramento interno e con la tendenza degli imperi continentali ad assicurarsi uno sbocco sul mare -, ma la Bibbia li interpreta così: punizione di Dio per i peccati, a cominciare dal peccato di aver adorato altri dei.
Infine, dopo il ritorno dall’esilio i profeti spiegarono carestie e scarsità di raccolti con la lentezza nella ricostruzione del tempio (Ag 1,5-11; 2,19).
Il Nuovo Testamento prende per le corna la nostra questione con tre precisi orientamenti.
Il primo: non è automatica la relazione tra il peccato e una disgrazia soprattutto fisica. Gesù lo afferma quando alla domanda sul cieco nato, se avesse peccato lui o i genitori per ritrovarsi cieco, risponde: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio» (Gv 9,3). Più chiaro di così!
Il secondo: a fronte della caduta di una torre con l’uccisione di persone e di un eccidio compiuto da Pilato, Gesù precisa che i morti non erano più peccatori di quanti lo stavano ascoltando, ma «se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (Lc 13,3.5); dopo la guarigione di un paralitico, Gesù lo incontra e lo ammonisce: «Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio» (Gv 5,14). Sono testi che suppongono un peccato precedente che “si potrebbe” legare alle disgrazie, ma la dinamica del discorso è volta a scongiurare la disgrazia definitiva più che non a tematizzare la relazione tra peccato precedente e disgrazia attuale.
Il terzo: preso atto della cattiva celebrazione dell’Eucaristia a Corinto, Paolo conclude: «È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti» (1Cor 11,30). Il commento della Bibbia di Gerusalemme tende a diminuire la forza del testo attribuendolo a una “pensata” di Paolo che «interpreta un’epidemia come una punizione divina per la mancanza di carità che ha reso l’eucaristia impossibile». Vero, ma il testo è garantito dall’ispirazione dello Spirito Santo e pone un legame esplicito tra la cattiva celebrazione eucaristica e le malattie e le morti. In questo caso la considerazione di Paolo è esattamente il contrario della risposta di Gesù sul cieco nato, ma non si tratta di contrapporre Paolo a Gesù Cristo: piuttosto si tratta di prendere atto che la realtà è variegata e comporta diversi modi di agire di Dio. Dunque il NT insegna l’assenza di legame tra peccato concreto e malattia concreta in alcuni casi e la presenza dello stesso legame in altri casi.
Il NT svela un’azione castigante di Dio anche attraverso l’uso di precisi termini.
Il primo è “kolázô”, con il significato iniziale di sfrondare e quindi castigare. Il termine è usato in senso forte in Mt 25,46: «e se ne andranno: questi al supplizio eterno (…)» e in 2Pt 2,9 dove il Signore riserva gli iniqui «per il castigo nel giorno del giudizio». Non più riferito a Dio, ma in senso di punizione attiva, ricorre in At 4,21 (il sinedrio vuole punire gli apostoli). I testi presuppongono un’azione castigante e diretta di Dio e non solo l’afflizione che deriva da un peccato commesso.
Il secondo è “timôréô” che – dalla radice “onore” – significa ristabilire l’onore e la giustizia, anche con una punizione. Il testo più forte è Eb 10,29: «di quanto peggiore castigo pensate che sarà giudicato meritevole chi avrà calpestato il Figlio di Dio e ritenuto profano quel sangue dell’alleanza». Vedi altri testi nei quali Dio non è il soggetto, ma dove il senso è sempre di un intervento punitivo esterno al colpevole: At 22,5; 26,11; 2Cor 2,6.
Il terzo deriva dalla radice “díkê”, giustizia, nel senso di fare giustizia, ristabilirla – se è stata infranta – con un’azione punitiva (cfr. Lc 18,3.5.7-8; Ap 6,10; 19,2). Bisogna trattare il proprio corpo con rispetto senza ingannare i fratelli perché «il Signore punisce tutte queste cose» (1Ts 4,6). Nell’assedio a Gerusalemme vi saranno «giorni di vendetta» (Lc 21,22). Alla fine dei tempi Gesù si manifesterà dal cielo «per punire quelli che non riconoscono Dio e quelli che non obbediscono al vangelo (…) essi saranno castigati con una rovina eterna» (2Ts 1,8-9) e già oggi «conosciamo colui che ha detto: A me la vendetta!» (Eb 10,30). Vedi ancora il fuoco vendicatore su Sodoma e Gomorra, le punizioni delle autorità civili e altri usi del termine in Paolo (Gd 7; 1Pt 2,14; Rm 3,19; 12,19; 13,4; 2Cor 7,11; 10,6).
Infine, la categoria della “correzione” o “educazione”, da “paidéuô”: «è per la vostra correzione che soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non viene corretto dal padre?» (Eb 12,7 e più ampiamente 12,5-11). «Io, tutti quelli che amo, li rimprovero e li educo» (Ap 3,19; vedi anche Pr 3,12; Dt 8,5). Qui si può supporre un peccato precedente e un intervento di Dio, ma il contesto è non assimilabile alla severità dei testi precedenti. Vedi due affermazioni particolarmente consolanti dell’AT: Dio «non vuole fare vendetta di noi, ma è a scopo di correzione che il Signore castiga quelli che gli stanno vicino» (Gdt 8,27); «Io prego coloro che avranno in mano questo libro di non turbarsi per queste disgrazie e di pensare che i castighi non vengono per la distruzione, ma per la correzione del nostro popolo» (2Mac 6,12; cfr. 7,33).
Nel NT abbiamo però la rivelazione del modo definitivo con il quale Dio si situa verso gli uomini: Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4). Affermazione anticipata da alcuni testi dell’AT quali: Dio «non gode per la rovina dei viventi» (Sap 1,13) e «contro il suo desiderio umilia e affligge i figli dell’uomo» (Lam 3,33).
Dio non è un arbitro asettico e indifferente che registra le infrazioni e commina le punizioni conseguenti: Dio sta dalla nostra parte e vuole salvarci, anche attraverso le tribolazioni. Anche se Dio è… una persona seria e, avendoci creato liberi, rispetta la nostra libertà di rifiutarlo.
Fin qui l’ascolto delle Scritture. È però necessario passare all’intelligenza più sistematica delle Scritture e alla loro attualizzazione circa quanto stiamo vivendo adesso. Alla prossima volta.
CONTINUA (qui a seguire, appena uscirà, la seconda parte)
Castighi di Dio, correggere i figli è misericordia
- ECCLESIA
- 06-04-2020 – Padre Riccardo Barile OP
San Tommaso osserva che l’uomo si relaziona a tre livelli: con sé stesso, la società e Dio. Ogni suo peccato provoca dunque una triplice pena, che riflette un disordine. Quando Dio interviene con un castigo lo fa sempre dopo una serie di infedeltà dell’uomo e altrettanti richiami, così da ristabilire l’ordine tra le creature. Il suo fine è sempre correggere i figli che sono sulla via del male, perché vuole salvarli.

Concludevo il precedente intervento sui castighi di Dio (clicca qui) con la necessità di passare dall’ascolto delle Scritture a un’intelligenza sistematica, in quanto un elenco di testi, sia pure organizzato, solleva interrogativi di fondo talvolta senza risposta. Ecco alcune puntualizzazioni.
1. Il virus dell’autocastigo
Chi ha letto i testi del precedente intervento sui castighi di Dio rischia l’impressione di trovarsi non di fronte a Dio Padre, ma a “Il flagello d’un Dio punitor”, come conclude l’ultima aria della Maria Stuarda di Donizetti con uno strepitoso sovracuto su “punitor”. No, Dio non può fare cattiva figura e allora si rimedia con un virus teologico che da qualche tempo va girando: l’autogiudizio o l’autocastigo nel senso che il peccatore si condanna da sé stesso e il dolore è interno al peccato senza una pena aggiunta e se ci sono disgrazie e malattie è perché è normale. Così Dio non recita parti antipatiche e la sua misericordia è al salvo. Nel 2017, centenario di Fatima, qualcuno ha riletto in questo senso i castighi previsti dalla Madonna.
Intendiamoci, la spiegazione è vera ed è supportata anche da citazioni bibliche, ad esempio: «la tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono» (Ger 2,19), «le cose con cui uno pecca, con quelle viene punito» (Sap 11,16). Ma diventa un virus quando assurge a “unica” interpretazione delle Scritture in argomento. Infatti, se si ricercano tutti i passi dell’AT e del NT con i termini “castigare, punire” e simili, si genera un corposo elenco. E così Dio avrebbe tante volte parlato e lo Spirito Santo ispirato le Scritture per comunicare un contenuto che non è quello che appare dal testo? Ma via, siamo seri!
2. Tre cerchi umani non confondibili
San Tommaso d’Aquino († 1274) osserva che l’uomo vive relazionandosi a tre livelli: con sé stesso, con la società, con Dio. Se vive virtuosamente ad ogni livello, è fondamentalmente felice e consegue il premio. Ma se pecca, il peccato provoca una triplice pena: «una da sé stesso, che è il rimorso di coscienza; un’altra dagli uomini; una terza da Dio» (I-II, q 87, a 1). Questi tre livelli sono integrabili ma non confondibili: così se uno anche in piccole cose viene meno al patto sociale (secondo livello) – non pagare il biglietto sull’autobus o sul treno -, la società non può accontentarsi del rimorso (primo livello), ma commina una multa.
Allo stesso modo è logico che Dio intervenga con un castigo, anche se qui può sembrare che Dio abdichi alla sua paternità e al suo proposito di salvezza.
3. Quando Dio punisce non fa una brutta figura
Sempre secondo san Tommaso d’Aquino, la vendetta – non come la si intende nel linguaggio corrente ma nel senso tecnico di «infliggere un male penale a chi pecca» – è lecita e normale. È lecita perché si porta sul bene, che è l’emendamento di chi pecca o perlomeno il suo «contenimento a compiere il male e a mettere in discussione la quiete degli altri»: e in questo senso, perché conservi il carattere di virtù, deve essere praticata «nella debita misura». Diventa invece illecita «se chi la compie ha solo l’intenzione di provocare del male», perché sarebbe un atto di odio (II-II q 108, a 1; ad 3um).
Senza ovviamente compiere atti unicamente volti a provocare il male e anzi sempre con l’intento correttivo, Dio fa lo stesso e dunque non fa una brutta figura. Ma questo a noi oggi dà fastidio, anche quando lo troviamo scritto nella Bibbia, perché ci sembra che Dio sia troppo umano e da lui vorremmo qualcosa – anzi tanto – di più. Ma… e se provassimo a rovesciare la prospettiva? Infatti non è Dio che imita noi, ma noi che – anche negli ordinamenti penali quando sono retti e correttivi – in debolissima misura imitiamo la giustizia e la sapienza divina.
Continuando a seguire la riflessione di san Tommaso d’Aquino, «premiare o punire compete a chi stabilisce una legge e questo è il caso della divina provvidenza» (Contra Gentiles 3,140), che ha stabilito le leggi del mondo creandolo e ordinandolo, le leggi dell’armonia dell’uomo nel suo interno e nei rapporti con gli altri, le leggi che derivano dal patto di alleanza con Abramo, Mosè e oggi con tutti i fedeli di Gesù Cristo. Punire – strettamente relativo a premiare e dunque Dio non si limita a punire – comporta comminare delle pene, che però «sono comminate da Dio non per sé stesse, quasi che Dio si compiaccia in questo (quasi Deus in ipsis delectetur), ma in ordine ad altro, cioè per l’ordine che deve regnare fra le creature, in cui consiste il bene dell’universo», il quale comporta che Dio con la sua sapienza retribuisca adeguatamente virtù e vizi (ivi 3,144). Non giudicare il male commesso, non provvedere a una sanzione correttiva o finale – quest’ultima, ahimè, non più correttiva -, significherebbe in ultima analisi mantenere come normale un mondo disordinato e significherebbe che il male ha l’ultima parola, mentre «ogni male deve in ultima analisi essere concluso in qualche bene» (ivi 3,140), in questo caso sotto la bontà di un giudizio divino e di una punizione conseguente.
Mi rendo conto che per un certo tipo di uomo di oggi, affascinato dalla spontaneità, dal caso, dal disordine e dal trasgressivo a cominciare dai pantaloni strapagati perché strappati ad arte, i ragionamenti di cui sopra rasentano il delirio; tuttavia è a questo tipo di uomo e di mondo armonico che Dio ci rieduca, un’armonia all’interno della quale rientrano i castighi non voluti direttamente da Dio, ma in conseguenza delle disarmonie provocate da noi.
4. Dio è un Dio cristiano ed è quello che si rivela nelle Scritture
Dobbiamo però andare oltre. Dio è quello che si rivela nelle Scritture e nella Tradizione e nell’intervento precedente abbiamo visto che il suo modo rivelato di relazionarsi con noi è che vuole la salvezza di tutti (cfr. 1Tm 2,4). Non solo: Dio conosce la nostra concretezza che comporta tante volte cadere e altrettante rialzarsi, che comporta il desiderio di essere nella sua amicizia ma con la difficoltà psicologica e strutturale a modificare certe situazioni, eccetera. Proprio per questo la proposta salvifica non è offerta una volta sola e poi basta, ma continua ad essere offerta tante volte nel tempo e questa “lentezza” è motivata dal fatto che Dio «non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2Pt 3,9).
È in questo orizzonte che vanno letti i castighi di Dio, che nella presente vita sono sempre “castighi” nel senso etimologico del termine, che deriva dal latino “castus agere”, rendere puro, corretto dagli errori, tanto che un tempo si parlava di edizioni di opere letterarie “castigate”, cioè corrette dagli errori delle edizioni precedenti. La primaria intenzione di Dio non è né punitiva né tanto meno uno sfogo vendicativo, ma semplicemente perché ci convertiamo, perché torniamo a Lui.
Tra l’altro, normalmente i castighi di Dio, a differenza dei rimproveri umani, non sono mai una sorta di fiato sul collo dopo ogni peccato, dal momento che «non si pronuncia una sentenza immediata contro una cattiva azione»: da parte di Dio si tratta di divina pazienza, da parte nostra spesso comporta che «il cuore degli uomini è pieno di voglia di fare il male» (Qo 8,11). I grandi castighi di Dio, ad esempio il diluvio o la fine del regno di Israele e l’esilio, avvengono dopo una serie prolungata di infedeltà e avversioni a lui. E a questo punto mi pare che chi volesse interpretare il Covid-19 come un castigo di Dio – preciserò in seguito come e con quale grado di certezza – dovrebbe interpretarlo: a) come un intervento correttivo; b) come un intervento a seguito di numerosi e continui allontanamenti dalla legge di Dio, non solo quella evangelica e della tradizione cristiana, ma quella che Dio ha posto nella natura, sempre più travolta da un delirio umano di onnipotenza.
5. Da parte di Dio è proprio necessario castigare?
Si potrebbe obiettare: se Dio desidera che torniamo a Lui, perché non continua a chiamarci invece di inviare dei castighi? Ahimè, questo non tiene conto della condizione umana, ma di speculazioni irreali e buoniste, che vorremmo imporre a Dio, mentre nella vita quotidiana non funzionano a livello di codice della strada, di tasse, di biglietti del treno ecc., non proposti con sole campagne di “mentalizzazione”, ma sempre legati a una sanzione.
Tralascio le citazioni, soprattutto dell’AT, sulle correzioni a livello di frusta – «frusta e correzione sono saggezza in ogni tempo» (Sir 22,6) -, legate a una cultura che non è più la nostra e che non siamo tenuti a ristabilire. Ma richiamo un passaggio illuminante della Regola di san Benedetto, la quale riconosce che – a fronte di una colpa grave – la correzione più forte e medicinale è la “scomunica”, ossia la separazione temporanea del colpevole dalla comunità; questo però suppone una certa finezza nel soggetto che deve comprendere la portata del provvedimento – «se capisce che cosa è questa pena» (23,4) -, mentre se il soggetto è un improbo o un rude che non arriva a riflessioni così sottili, «sia sottomesso a una pena corporale» (23,5), che certo sarà in grado di capire. Castigo corporale a parte, noi ci comportiamo così, la società civile si comporta così: perché vorremmo imporre a Dio un altro comportamento?
6. Dio è un Dio… metafisico
Paolo, rivolgendosi ai filosofi dell’Areopago di Atene e citando un poeta pagano, disse di Dio: «In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17,28) e rivolgendosi ai fedeli precisò: «È Dio che suscita in voi il volere e l’operare» (Fil 2,13). Nell’AT il saggio già spiegava che ««il cuore del re è un corso d’acqua in mano al Signore: lo dirige dovunque egli vuole» (Pr 21,1) e il profeta aggiungeva che Dio può servirsi anche di Ciro, il re persiano che non lo conosceva: «Anche se tu non mi conosci» (Is 45,4-5).
A partire da qui, la saggezza filosofica cristiana ha elaborato un pensiero metafisico su Dio, secondo il quale, nell’agire che avviene nel mondo, Dio non è uno tra gli agenti, sia pure particolarmente forte, ma è colui che sostiene tutto nell’agire e nell’essere, compresi i demoni, per cui la sua azione avviene attraverso influssi sugli elementi naturali e sulle persone. Applicato all’ipotesi del Covid-19 come un castigo di Dio, significa che la pandemia è normalmente spiegabile con cause naturali o di malizia umana. L’ipotesi di un castigo di Dio è uno sguardo di fede, che si può proporre ma non imporre.
Ahimè, chiedo scusa ai lettori, ma il discorso cresce come un impasto lievitato, per cui per arrivare alla fine sarà necessario un terzo intervento. A presto.
PRIMA PARTE: Castigo di Dio, ma per salvarci. Dice la Scrittura