Il massacro sistematico di un popolo cristiano che dava fastidio all’Impero ottomano: la storia si ripete?

«Ma – scrive padre Benoit – se le uccisioni cessarono nella città, proseguirono però nei dintorni. Tutte le masserie cristiane furono saccheggiate, e ve n’erano 360. (…) Lo stesso avvenne, non solo nelle altre masserie, ma anche nelle tre grosse villeggiature o vigneti, che i cristiani possedevano nei dintorni di Adana. Dopo aver ammazzato e saccheggiato, i turchi incendiavano le abitazioni… Certi particolari fanno fremere. Alcuni armeni venivano inchiodati in croce sui pavimenti, sulle porte o su tavole: delle giovanette venivano denudate e sventrate a colpi di coltelli: indicibili delitti eran perpetrati sopra ragazzette da 7 ad 8 anni. I carnefici giocavano colle teste di fresco recise e perfin sotto gli occhi dei genitori lanciavano per aria i bambini, che ricevevano poi sulla punta dei coltellacci. Quanti altri orrori la penna si rifiuta di descrivere! “Vieni – diceva un musulmano a suo figlio di 12 o 13 anni – vieni, prendi questo coltello, e faccia Allah ch’esso sia ben tagliente per sgozzare i cristiani!”…» (cronaca del gesuita francese padre Lucien Benoit nel dispaccio pubblicato sul numero 1822 del 2 luglio 1909)

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Dalla lettera di Benedetto XV al sultano Mehmet V

Riportiamo un brano della lettera che papa Benedetto XV inviò, nel settembre del 1915, al sultano Mehmet V per supplicarlo di far cessare le violenze e le deportazioni a danno degli armeni.

«Ci giunge dolorosissima l’eco dei gemiti di tutto un popolo, il quale nei vasti domini ottomani è sottoposto a inenarrabili sofferenze. La nazione armena ha già veduto molti dei suoi figli mandati al patibolo, moltissimi, tra i quali non pochi ecclesiastici e anche qualche vescovo, incarcerati o inviati in esilio.
Ci vien riferito che intere popolazioni di villaggi e di città sono costrette ad abbandonare le loro case per trasferirsi con indicibili stenti e patimenti in lontani luoghi di concentrazione, nei quali oltre le angosce morali debbono sopportare le privazioni della più squallida miseria e le torture della fame.
Noi crediamo, sire, che tali eccessi avvengano contro il volere del governo di vostra maestà.

Ci rivolgiamo, pertanto, fiduciosi a vostra maestà e ardentemente la esortiamo di volere, nella sua magnanima generosità, avere pietà e intervenire a favore di un popolo, il quale, per la religione medesima che professa, è spinto a mantenere la fedele sudditanza verso la persona della stessa maestà vostra. Se vi sono tra gli armeni traditori o colpevoli di altri delitti, che essi siano legalmente giudicati e puniti.
Ma non permetta vostra maestà, nell’altissimo suo sentimento di giustizia, che nel castigo siano travolti gl’innocenti e anche sui traviati scenda la sovrana sua clemenza. Dica vostra maestà l’invocata e possente sua parola di pace e di perdono e la nazione armena, resa sicura da violenze e da rappresaglie, benedirà, al nome augusto del suo protettore».

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ARMENIA, UNA STORIA MILLENIARIA
Gli armeni parlano una lingua del gruppo indo-europeo, scritta con l’alfabeto nazionale armeno, inventato secondo la tradizione nel 404-405 dal santo Mesrop Mashtots. Dall’antichità fino al primo conflitto mondiale hanno abitato l’Armenia, un altopiano di origine vulcanica caratterizzato da altitudini medie di 2.500-3.000 metri dominato dal monte Ararat (5164 m), dove si sarebbe posata l’arca di Noè.

La regione di circa 300 mila kmq si estende tra Kurdistan, Azerbaigian iraniano, Anatolia centrale e Caucaso. I confini non sono definiti perché continuamente modificati dalle guerre. La nazione armena grazie al re Trdat III (Tridate, IV sec. d.C.) adotta intorno al 301 il Cristianesimo come religione di stato e rivendica il titolo di prima nazione cristiana.

«Il Regno d’Armenia fu il primo stato ad accogliere ufficialmente la fede cristiana e a professarla da quel momento in poi in una continuità ininterrotta» (4). Ciò ha favorito il consolidamento della coscienza nazionale. La Chiesa apostolica armena è alla base dell’unità nazionale e la religione rappresenta anche la fonte della cultura armena nelle sue espressioni letterarie, artistiche, architettoniche.

L’Armenia rappresenta un crocevia dell’Asia occidentale, un’area di transito per i traffici commerciali.Gli abitanti sono stati coinvolti nei continui conflitti tra gli imperi orientali e quelli occidentali, tra persiani,  romani, bizantini, arabi, ottomani, russi. I brevi periodi di indipendenza politica nel I secolo a.C. e nel X secolo d.C. sono da ascrivere alla debolezza dei vicini. ma la popolazione cristiana ha sempre cercato di mantenere la propria identità religiosa, etnica, culturale. Però si è trovata progressivamente isolata: con la caduta dell’impero bizantino viene meno questo importante riferimento occidentale e viene conglobata nell’impero ottomano, dove la millet armena ortodossa (gregoriana, apostolica) era formalmente riconosciuta e il patriarca poteva negoziare direttamente con la Porta.

 LA PICCOLA PATRIA VENEZIANA
Nel periodo compreso tra il XV e il XVII secolo alcuni centri della diaspora divennero i poli catalizzatori della vita e delle attività delle varie comunità armene. In Italia furono Livorno, con la prima sede armena per il commercio in Europa fondata nel 1553, e Venezia.

Uno dei fattori principali di questa tendenza alla formazione di nuclei più consistenti è da ricercare nella posizione stessa di tali città all’interno dei sistemi socio-economici dei rispettivi paesi. Questi contatti furono alla base della stampa armena e, in particolare, della prima tipografia in questa regione e ben prima dei popoli limitrofi.

La maggior parte dei libri armeni  pubblicati nel XVI e nel XVII secolo fu stampata nelle città europee, soprattutto a Venezia, Parigi, Marsiglia e Amsterdam. nel 1512 a Venezia vede la luce il primo libro a stampa armeno il cui editore è un armeno, un certo Hakob. A partire da quella data una ventina di tipografie a Venezia svolse una notevole attività editoriale armena pubblicando circa 250 titoli in armeno fino al 1789, anno in cui s’inaugurò nell’isola di san Lazzaro la celebrata, poliglotta tipografia dei padri mechitaristi. Essa sarà in grado di stampare in ben 36 lingue con più di 10 alfabeti diversi.

Venezia manterrà così tra i vari centri storici dell’editoria armena un primato quasi assoluto, cui farà concorrenza solo Costantinopoli nel settecento e nell’ottocento. La Serenissima divenne senza dubbio il centro più importante della rinascita armena del seicento e del settecento. A Venezia è attecchita l’opera culturale e religiosa della congregazione mechitarista cattolica di San Lazzaro, sull’omonima isola, che nel 1715 venne concessa dal senato veneziano agli armeni.

Questo luogo è considerato «una piccola Armenia» da cui si diffuse la rinascita culturale che pervase nel XVIII secolo il mondo armeno. la grandezza della Serenissima, anche dopo la sua scomparsa, è molto presente tra gli armeni. «Sarà questa una tradizione costante di Venezia, della sua Chiesa in particolare, del suo patriarcato e clero, di stare sempre vicini a San Lazzaro nei momenti duri. Il clero di Venezia non esitò, quando se ne presentò la necessità, a inviare a Roma raccolte di firme con tanto di testimonianze, che non lasciavano adito ad alcun dubbio sulla fede, sulla correttezza, sull’affidabilità dei “Padri Armeni”.

In altre zone , inseno ad altri contesti ecclesiali, non sarebbe forse stata sempre così semplice né così facile la sopravvivenza di una comunità con caratteristiche alquanto “divaganti” rispetto alla “norma” dei tempi… Venezia è divenuta un fattore attivo, permanente ed efficacemente presente nella cultura non solo diasporica, ma anche patria degli armeni, e si è fatta di essa parte integrante»

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Mondo e Missione n.4 Aprile 2010

I dispacci dei religiosi pubblicati su «Le Missioni cattoliche»
di Chiara Zappa

«DA TRE GIORNI cristiani massacrati, saccheggiati, incendiati. Enormi perdite. I superstiti affamati. Miseria estrema. Soccorsi urgenti. Nostro podere annientato». Era il 19 aprile del 1909 quando monsignor Boghos Bedros XIII Terzian, vescovo armeno cattolico di Tarso e Adana, così scriveva in un telegramma spedito dalla Turchia e pubblicato da Le Missioni cattoliche, «antenata» della nostra rivista. 

Sfogliando quelle pagine stampate un secolo fa, ci siamo imbattuti in testimonianze straordinarie, che raccontano in prima persona i prodromi di quello che si sarebbe trasformato nel primo genocidio del XX secolo, il «Grande male» che si abbattè sulla popolazione armena che in Anatolia viveva da quasi tremila anni. Tra un milione e un milione e mezzo vittime – così dicono le ricostruzioni -, migliaia di donne e bambini «infedeli» inglobati come servi in focolari musulmani, famiglie intere (le più fortunate…) fuggite all’estero e mai più ritornate nella loro terra.
Della genesi del genocidio armeno, su cui ancora la politica non ha permesso di scrivere una storia condivisa, i missionari furono testimoni eccezionali. A cominciare dagli eccidi divenuti noti come «i massacri di Adana», quando – era l’aprile 1909 – orribili violenze si scatenarono ai danni degli armeni nel capolouogo della Cilicia e in tutta la provincia, fino alla regione di Tarso.

«Il mio ultimo dispaccio vi ha informato in poche parole del disastro di cui fu vittima la popolazione cristiana di Adana nelle giornate del 14,15 e 16 aprile, come la nostra masseria fu distrutta e tutto il personale massacrato», scrive monsignor Terzian in una lettera datata 3 maggio 1909 (pubblicata sul numero 1819 di Le Missioni cattoliche). «Stavo per informarvi dettagliatamente dell’accaduto, quando, il 25 aprile, una nuova esplosione di fanatismo musulmano finì per annientare completamente tutti i nostri stabilimenti di Adana. La nostra chiesa, il nostro collegio, la nostra scuola femminile, il convento delle religiose, il presbiterio, il vescovado, tutto insomma fu preda delle fiamme, senza che potessimo porre in salvo la minima cosa».


LA TESTIMONIANZA del vescovo da voce dall’interno a un momento di forte tensione per la società turca. Sul trono di Istanbul siede il sultano Abdul Hamid II, ma il governo è in mano ai Giovani Turchi, movimento iper-nazionalista che propugna la laicizzazione dello Stato ma anche, soprattutto in certe frange, la pulizia etnica e religiosa dell’Anatolia. 

In molti ambienti turchi e curdi non viene vista di buon occhio la possibilità che alle minoranze non islamiche siano riconosciuti gli stessi diritti dei musulmani. Da qui a trasformare gli armeni, comunità che parla una propria lingua e pratica una fede «sospetta» affine a quella della Chiesa ortodossa di Mosca, in un capro espiatorio accusato di tentazioni indipendentiste e di simpatie filorusse, il passo è purtroppo breve. 

Già a fine ‘800, gli armeni di Turchia erano stati oggetto di persecuzioni. Ma i primi anni del nuovo secolo – mentre in Europa soffiano venti di guerra e l’impero ottomano, prossimo al tramonto, subisce duri colpi nel conflitto con la Russia -segnano tra i turchi un intensificarsi del fanatismo religioso e della xenofobia, particolarmente proprio in Cilicia. Un crescendo di provocazioni contro la popolazione armena a partire dagli ultimi mesi del 1908, con la diffusione di notizie false circa una loro presunta insurrezione, sfocerà, nella primavera seguente, nello scoppio delle violenze vissute in prima persona da monsignor Terzian. 

«Si valuta a 30 o 40 mila il numero delle vittime in tutto il vilayet continua il testo pubblicato sulla rivista -, è impossibile però ancora dare una cifra esatta approssimativamente. Ad Adana quasi tutto il quartiere armeno non presenta più che un mucchio di ceneri; tutta la popolazione cristiana, terrorizzata, si trova riunita in due o tre luoghi, dove spera protezione ma dove pure si trova esposta alla fame e presto forse all’epidemia. Per giunta a tutte queste miserie e per più aggravarle, non è permesso ad alcuno di allontanarsi da una città, che non è più che un mucchio di rovine».

LA CRONACA, fin qui asciutta, risparmia al lettore i particolari della mattanza. Quella che, nella sola residenza dello stesso vescovo Terzian, vide centosessanta persone barbaramente massacrate, «e i cadaveri gettati nei pozzi». Ma, nei successivi numeri di Le Missioni cattoliche, le voci dei missionari, religiosi e suore, dall’interno della tragedia fanno rivivere tutto il terrore di un genocidio per troppo tempo rimasto sepolto nel silenzio. A cominciare dall’episodio che, ad Adana, scatenò le violenze, il cui racconto conferma – e arricchisce di macabri particolari – le altre, rarissime, testimonianze coeve.
«Il martedì di Pasqua – scrive il gesuita francese padre Lucien Benoit nel dispaccio pubblicato sul numero 1822 (2 luglio 1909) – essendo i nostri quattro fratelli maristi usciti, notarono un’insolita animazione nei quartieri turchi. Essi erano invasi da una folla di musulmani venuti dalle circostanti campagne, avevan tutti il capo coperto del turbante, mentre ordinariamente s’accontentano, come i cristiani, del fez tarbuck degli arabi. Questi forastieri portavan fucili e scimitarre. Da qualche tempo le relazioni tra armeni e musulmani erano molto tese. Il venerdì santo, 9 aprile, avendo tre musulmani brutalmente assalito un armeno di quindici anni, il giovane aveva estratto il suo revolver, steso morti due de’ suoi aggressori e ferito il terzo. Ecco un pretesto… Il sangue musulmano era corso, ci volevano flotti di sangue cristiano per placare la collera dell’Islam».

LE PAROLE del gesuita padre Goudard suonano come il presagio della catastrofe: «Nei susseguenti giorni vi fu gran rumore nella città. Il martedì di Pasqua i cristiani non osarono uscir di casa. Rassicurati però dalle autorità, finirono per aprire le loro botteghe come al solito: era quello che si aspettava». Un accenno soltanto, che riporta però al centro la grave questione della connivenza di notabili e funzionari statali non solo nel non impedire ma nello spianare la strada ai massacri. 

«Quando all’orologio della città, che segna le ore turche, suonarono le 4 (le 11 e 1/2 circa), improvvisamente incominciò sul mercato poi in tutta la città una scarica di fucilata. Uno degli armeni più in vista, sig. David Urfelan, vien ucciso in pubblica via da un turco, che gli dice: “In nome del Dio sommo, incominciamo da te”. In tutta fretta, intanto che i padri Rigal e Tabet organizzano la difesa del collegio (il collegio S. Paolo dei gesuiti, ndr), due altri missionari, i padri Benoit e Sabatier, corrono dalle suore per rassicurarle.
Al loro arrivo trovano la casa già invasa dai cristiani affollati». Si tratta della scuola e della cappella delle Sorelle di Saint-Joseph di Lyon, poi data alle fiamme il 2 maggio 1909. Ecco il racconto di una delle religiose presenti: «Al segnale dei massacri, molti di noi si buttano in ginocchio, le braccia in croce, e si raccomandano a Dio. Cinque minuti dopo giungono i nostri vicini atterriti e si precipitano per le nostre tre porte. Le fucilate aumentano; nelle vie gli uomini cadono come mosche. Dalle finestre del dormitorio se ne vedono stesi morti. Il saccheggio si fa in regola. I banditi sforzano la porta a colpi di ascia e invadono la casa, donde si odono subito uscire urla di disperazione. Sono le vittime che si sventrano, che si affettano e si torturano. Quando tutte son morte, si gettano mobili, abiti, oggetti diversi nel fondo d’un carro che staziona nella via; si da il petrolio alla casa per mezzo d’una pompa, vi si appicca il fuoco e si passa alla casa che segue».

A PERPETRARE le violenze – raccontano le corrispondenze dall’inferno – sono soprattutto i «basti buzuck», i cavalieri dell’esercito turco, arruolati in tempo di guerra. Dopo quattro giorni di orrore, ad Adana sembra tornare un minimo di calma. «Ma – scrive padre Benoit – se le uccisioni cessarono nella città, proseguirono però nei dintorni. Tutte le masserie cristiane furono saccheggiate, e ve n’erano 360. (…) Lo stesso avvenne, non solo nelle altre masserie, ma anche nelle tre grosse villeggiature o vigneti, che i cristiani possedevano nei dintorni di Adana. Dopo aver ammazzato e saccheggiato, i turchi incendiavano le abitazioni… Certi particolari fanno fremere. Alcuni armeni venivano inchiodati in croce sui pavimenti, sulle porte o su tavole: delle giovanette venivano denudate e sventrate a colpi di coltelli: indicibili delitti eran perpetrati sopra ragazzette da 7 ad 8 anni. I carnefici giocavano colle teste di fresco recise e perfin sotto gli occhi dei genitori lanciavano per aria i bambini, che ricevevano poi sulla punta dei coltellacci. Quanti altri orrori la penna si rifiuta di descrivere! “Vieni – diceva un musulmano a suo figlio di 12 o 13 anni – vieni, prendi questo coltello, e faccia Allah ch’esso sia ben tagliente per sgozzare i cristiani!”…».

DOPO QUALCHE giorno di calma apparente, le stragi proseguono in tutta la zona, come raccontano molti altri dispacci, che nelle settimane e nei mesi seguenti continueranno a giungere alla redazione di Le Missioni Cattoliche. Il bilancio approssimativo dei morti e delle distruzioni – da Tarso ad Antiochia, da Missis a Hamidie e in decine di altre città e villaggi – è puntuale quanto spaventoso: in totale, le vittime risultano almeno trenta, forse quarantamila, molti di più quelli rimasti «senza tetto e senza rifugio».

Migliala le case, le masserie, le vigne, i possedimenti distrutti e razziati. E la rovina avrà effetti anche fuori dalla Cilicia. Sulla rivista pubblicata il 16 luglio 1909, una lettera del padre Gransault, missionario a Cesarea, in Cappadocia, racconta: «I massacri scoppiarono proprio nell’epoca dell’anno in cui la mietitura della ricca pianura di Adana attira da 15 ai 20 mila lavoratori, che vengono da tutti i punti dell’Anatolia e fanno dieci, venti e anche trenta giorni di viaggio. Orbene, la maggior parte di questi disgraziati furono scannati come gli altri di Adana. Perciò i massacri hanno avuto una dolorosa ripercussione dappertutto. Tutti i villaggi cristiani posti tra Sivas e Cesarea sono stati assai provati». 

In un articolo sul numero del 16 dicembre 1910, che tenta di fare il punto sui funesti avvenimenti di un anno e mezzo prima, si nota che «è un fatto molto singolare che degli alti ufficiali turchi responsabili di tante crudeltà e massacri, nemmeno uno fu processato». Nello stesso articolo, si scrive che «le condizioni degli armeni sono tuttavia migliori e forse col nuovo governo i massacri diventeranno una storia del passato». Quattro anni e mezzo dopo, sarebbe divampata la «soluzione finale» della questione armena, il primo genocidio del Novecento.

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E DUNQUE…. LA STORIA SI RIPETE? Davvero “FRATELLI TUTTI”??? Certo! Il Cristiano deve amare i nemici, deve avere il suo martirio in Cristo-con Cristo-per Cristo… ma a tutto ciò seguirà la giustizia divina… Se fossimo davvero “fratelli tutti” (ma non lo siamo), è necessario e primario che chi fa da “genitore” non permetta che certe cose accadano, o che almeno ci provi seriamente punendo anche i presunti fratelli assassini….

Si riporta spesso la storia di CAINO quando uccise Abele, perché il Buon Dio non permise che ci si vendicasse uccidendolo… ma il Buon Dio esiliò Caino, gli impose un sigillo di infamia… non volle che ci si vendicasse uccidendolo, ma lo estromise dalla COMUNITA’ dei “Figli di Dio”….

Vi proponiamo un film, per riflettere su quanto sta accadendo oggi, a firma di Rino Cammilleri….

Titolo originale: La Promessa, il film per non dimenticare il genocidio armenoFonte: La Nuova Bussola Quotidiana, 19/02/2019 Pubblicato su BastaBugie n. 607

di Rino Cammilleri

Il genocidio armeno è stato narrato non molte volte dal cinema. Si ricordano solo La masseria delle allodole (2007) dei fratelli Taviani, Il padre (2014) di Fatih Akin, il tedesco Aghet del 2010 (ma è un documentario, peraltro mai distribuito in Italia) e Ararat (2002) di Atom Egoyan. Con ben altri mezzi si è mossa Hollywood nel 2016 producendo The Promise (che in italiano ha conservato il titolo originale, La promessa). Diretto da Terry George, schiera un cast di tutto rispetto: Christian Bale, Oscar Isaac, James Cromwell, Jean Reno. Alla voce corrispondente su Wikipedia troviamo che «la pellicola ha attirato su di sé operazioni di trolling e di voti negativi, forse da parte di gruppi nazionalisti turchi. Hollywood Reporter ha notato che la pagina del film sul sito Internet Movie Database è stata inondata da migliaia di voti a una stella, il voto minimo, già a partire dalla presentazione avvenuta al Toronto International Film Festival, così da abbassare il rating del film».

Gli stessi mezzucci denigratori erano stati usati in Germania per Aghet, perché colà gli immigrati turchi sono numerosi e numerosi sono, tra questi, i sostenitori di Erdogan, che al solo sentir parlare di «genocidio armeno» va su tutte le furie. Com’è noto, il governo turco nega questa sua macchia storica, quantunque avvenuta cent’anni fa. C’è chi pensa che un riconoscimento ufficiale aprirebbe una serie pressoché infinita di vertenze risarcitorie, dal momento che la comunità armena al tempo del Metz Yeghern (il «Grande Male», così gli armeni chiamano il loro genocidio) era la più ricca dell’Impero ottomano. E la Turchia, malgrado le sue attuali manie di grandezza, è in piena crisi economica.
Il film narra di un giovane armeno che nel 1914 sogna di studiare all’università a Istanbul ma non ne ha i mezzi. Si fidanza allora con una ragazza ricca e ne usa la dote per mantenersi agli studi. Nella capitale fa amicizia con un giornalista americano e la di lui compagna, della quale finisce per innamorarsi. Ma ha una promessa (da qui il titolo) da mantenere, così torna a casa e sposa la fidanzata. Quando questa rimane incinta, però, comincia il genocidio. Lui viene catturato dai soldati turchi e adibito ai lavori forzati in un campo da cui si esce solo morti: chi cade, o non ce la fa, viene ucciso sul posto. Durante un tentativo, abortito, di rivolta, riesce a fuggire. Ma al suo paese trova la sua famiglia sterminata. La moglie gravida è stata addirittura sventrata.

Si unisce allora a un gruppo di profughi che cerca di difendersi a mano armata e di raggiungere il monte Mussa Dagh per trincerarvisi e vendere cara la pelle. L’episodio è vero e nel 1929 lo scrittore Franz Werfel gli dedicò il suo capolavoro, I quaranta giorni del Mussa Dagh. Intanto il giornalista americano (Christian Bale) è stato arrestato perché nella sua corrispondenza ha rivelato al pubblico americano quel che sta succedendo nell’Impero ottomano. Per farlo liberare interviene l’ambasciatore Morgenthau (James Cromwell), il quale minaccia il ministro dell’interno turco di un intervento americano. Il giornalista viene allora deportato a Malta, ma qui trova un ammiraglio francese (Jean Reno) e lo convince a soccorrere gli armeni assediati sul Mussa Dagh. Anche questo episodio è storicamente vero: fu una fregata francese a trarre in salvo gli armeni del Monte di Mosè (Mussa Dagh).
Il film ha ritmi hollywoodiani e si segue fino all’ultimo col fiato sospeso. Anche se il finale è amaro.

Fu il primo genocidio del Novecento (il primo in assoluto fu quello commesso nel 1793-1794 dai rivoluzionari francesi nella cattolica Vandea), del quale quasi subito si perse il ricordo. Hitler lo citava per far intendere che la «soluzione finale» per gli ebrei era praticabile: in poco tempo nessuno se ne sarebbe ricordato. È vero, la fiamma del ricordo vive solo se qualcuno la tiene accesa. O la riaccende. Anche dopo un secolo.

e… tanto per completare:

leggi qui il testo originale ed integrale: La profezia del beato Charles de Foucauld: «Così l’islam ci dominerà», altro che “fratelli tutti”…

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